Articolo di Omar Saker - Studio Lepore Associazione Professionale
Con la sentenza n. 12964/2021, la terza sezione della Cassazione civile torna a far chiarezza sul tema della nullità della pattuizione usuraria degli interessi di mora nel rapporto contrattuale. Tale pronuncia presenta aspetti assai importanti, ma è destinata a far discutere per alcuni dubbi che lascia.
Partiamo dai fatti.
Una società stipula un contratto di leasing con un istituto bancario italiano, pattuendo interessi moratori che ammontano al 10,12%. Poiché, al momento della stipulazione, il tasso soglia era dell’8,40%, la società decide di agire in giudizio al fine di far dichiarare la natura usuraria degli interessi e il conseguente diritto – si legge nella sentenza – di non pagarli affatto.
In primo grado, il Tribunale rigetta la domanda, sul presupposto che gli interessi di mora siano sottratti alla disciplina antiusura, che riguarderebbe solo quelli corrispettivi. Tale decisione viene confermata dalla Corte di Appello, la quale nega l’esistenza di un interesse ad agire della debitrice, sicché – a detta della Corte – non sussistevano prove che gli interessi di mora fossero stati corrisposti.
In altri termini, a detta della Corte d’Appello, la disciplina degli interessi usurari si applica solo agli interessi corrisposti e non anche a quelli meramente pattuiti. Infine, la Corte esclude che l’eventuale nullità degli interessi di mora comporti allo stesso modo la nullità degli interessi corrispettivi.
Il ricorso alla Suprema Corte di Cassazione da parte della debitrice, per quel che interessa l’argomento in questione, si fonda su due ordini di questione: da un lato, oltre ad insistere sul fatto – negato dai giudici – che anche gli interessi di mora ricadano nell’ambito di applicazione della disciplina antiusura, la ricorrente eccepisce la violazione dell’articolo 644 c.p., nella misura in cui i giudici di merito non hanno riconosciuto il rilievo della disciplina in questione anche per gli interessi pattuiti e non solamente per quelli già corrisposti; dall’altro, viene altresì evidenziata la violazione dell’articolo 1815, secondo comma, del codice civile, che stabilisce la nullità della clausola usuraria in aggiunta all’esclusione della debenza degli interessi.
La Suprema Corte premette, in primo luogo, che la disciplina antiusura concerne anche gli interessi moratori, poiché “volta a sanzionare la promessa di qualsivoglia somma usuraria dovuta in relazione al contratto”.
In secondo luogo, prosegue la Corte, tale disciplina “vale sol che gli interessi vengano pattuiti, in quanto l’art. 644 c.p. qualifica come illecita la condotta di chi si fa dare, sì, ma anche semplicemente promettere, interessi a tasso usuraio; senza considerare che la sanzione della nullità mira a tutelare il debitore, e sarebbe vanificata se costui potesse agire per la nullità della clausola solo dopo aver corrisposto gli interessi e dunque dopo averla attuata adempiendovi”.
Insomma, la Corte di Cassazione ribalta completamente il ragionamento dei giudici di merito, riconoscendo che la disciplina antiusura si applichi anche agli interessi pattuiti, indipendentemente dal fatto che questi siano stati effettivamente corrisposti, facendo leva sulla lettera dell’articolo 644 c.p., il quale punisce – in alternativa alla dazione – la semplice promessa di interessi o altri vantaggi usurari.
La Suprema Corte ritiene però infondato il motivo nella parte in cui asserisce che la nullità debba estendersi anche agli interessi corrispettivi.
L’argomentazione si fonda su di un precedente orientamento giurisprudenziale (Cass. sez. Un. 19597/2020), nel quale le Sezioni Unite affermano che “dall’accertamento dell’usurarietà discende l’applicazione dell’art. 1815 c.c., comma 2, di modo che gli interessi moratori non sono dovuti nella misura (usuraria) pattuita, bensì in quella dei corrispettivi lecitamente convenuti, in applicazione dell’art. 1224 c.c., comma 1”.
In estrema sintesi, dunque, la risposta della Suprema Corte si articola nei seguenti tre punti:
1) La disciplina antiusura si applica, indifferentemente, tanto agli interessi moratori quanto a quelli corrispettivi.
2) La violazione della summenzionata disciplina scatta già con la pattuizione degli interessi considerati “usurari”, anche se questi non sono stati corrisposti
3) La nullità della clausola che contempli interessi usurari non si estende alle clausole che si riferiscono agli interessi corrispettivi.
Ad avviso di chi scrive, il ragionamento della Corte è condivisibile solo in parte. La nota positiva è che, con questa sentenza, la Corte sembrerebbe aver riaffermato la preminenza della riserva di legge in materia penale, facendo prevalere il tenore letterale della norma sulle interpretazioni “creative” dei giudici. Infatti, in riferimento all’articolo 644 c.p., la conclusione risulta ineccepibile.
Tale norma, infatti, stabilisce chiaramente che la semplice promessa sia sufficiente per integrare la fattispecie criminosa. Per corroborare tale tesi, è sufficiente argomentare che la promessa viene concepita dalla norma come una condotta alternativa alla dazione, come può agevolmente intuirsi dall’impiego della congiunzione “o”, per cui commette il reato “chiunque si fa dare o promettere (…)”..
Del resto, il legislatore sembrerebbe aver costruito l’illecito in questione come un reato di pericolo, in quanto la semplice promessa è idonea a mettere in pericolo il patrimonio del debitore. Da qui la sufficienza della stipula della clausola, ai fini della configurazione del reato, a prescindere dall’effettiva concretizzazione del fatto..
Non convince affatto, invece, l’esclusione dell’estensione della nullità alle clausole sugli interessi corrispettivi. L’interprete sembrerebbe aver enfatizzato eccessivamente la fedeltà al testo, sulla scorta del brocardo “in claris non fit interpretatio”, a scapito del significato più ragionevole da attribuire alla norma.
Il secondo comma dell’articolo 1815 cc., infatti, stabilisce che “Se sono convenuti interessi usurari la clausola è nulla e non sono dovuti interessi”. Per giungere ad una conclusione siffatta, la Corte deve aver fatto leva sulla tecnica terminologica impiegata dal legislatore, sicché l’impiego del singolare (“la clausola” invece che “le clausole”) varrebbe a riferire la sanzione della nullità alla sola clausola che si riferisce agli interessi moratori.
A tale ricostruzione si può obiettare, a mio avviso, che riferire l’esclusione della debenza degli interessi solo alla clausola moratoria sarebbe una tautologia linguistica, che avrebbe come risultato lo svuotamento del significato della norma.
Infatti, poiché il legislatore ha richiamato espressamente la sanzione della nullità, l’esclusione della debenza degli interessi è da considerarsi in re ipsa, sicché non sarebbe necessario ribadire tale conclusione nella formula terminativa. Ne deriva che l’enunciato “non sono dovuti interessi” debba fare necessariamente riferimento agli interessi previsti dalle altre clausole.
La Corte non sembra aver tenuto conto del fatto che l’esclusione dell’estensione della nullità, in questo caso, rischia di salvare l’efficacia di un contratto che è stato evidentemente impiegato come strumento per la commissione di un reato. Sembrerebbe difficile, infatti, escludere che il disvalore espresso dalla condotta criminosa “inquini” anche le altre clausole (beninteso, quelle che contemplano interessi corrispettivi).
Gli interessi moratori, d’altronde, rappresentano una prestazione incerta ed eventuale, che non può dare all’usuraio la certezza del conseguimento del profitto criminale da questi ambito.
Pertanto, sarebbe del tutto ragionevole ipotizzare che la fissazione dell’ammontare degli interessi pattuiti sia strumentale alla concretizzazione del disegno criminoso.
In altri termini, non è da escludere la possibilità che il creditore spinga il debitore a concordare prestazioni corrispettive non agevolmente adempibili, allo scopo di far scattare gli interessi moratori che, appunto, sono usurari.
Tali clausole, quindi, rischiano di essere impiegate come un mezzo per rappresentare un’apparente buona fede dell’usuraio, celandone l’ambizione criminale.
Ritengo, quindi, che una più adeguata tutela dei contraenti non possa prescindere dall’estensione della nullità anche alle clausole corrispettive, in caso di usurarietà degli interessi moratori. L’unica prestazione dovuta al creditore, conseguentemente, è la restituzione del denaro prestato.
La redazione di ASFinanza&Consumo
Per chi volesse consultare la sentenza la può trovare a questo link: Sentenza Cass_Civ.SezIII_n12964_13mag2021.pdf
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