ll costo di un prestito che il soggetto finanziario è chiamato a sostenere non è rappresentato dai soli interessi da corrispondere all’istituto mutuante.
Sovente per l’ottenimento del finanziamento il cliente deve sostenere una serie di oneri aggiuntivi (spese di istruttoria, spese di perizia, oneri amministrativi, premi assicurativi) che, sommandosi agli interessi, determinano il lievitare del costo complessivo del finanziamento.
E’ evidente, dunque, che non è possibile valutare la convenienza economica di due finanziamenti alternativi semplicemente confrontando il tasso d’interesse. Potrebbe essere, difatti, che il finanziamento regolato con il tasso più basso preveda il sostenimento di costi aggiuntivi molto gravosi che finiscono per rendere il prestito complessivamente più oneroso di quello, alternativo, regolato ad un saggio più elevato.
Per tale ragione, gli istituti di credito sono obbligati a comunicare al soggetto finanziato non solo il tasso necessario per calcolare i puri interessi da rimborsare, ma anche il tasso annuo effettivo globale (TAEG), ovvero quell’indicatore che misura l’onerosità complessiva del finanziamento determinata tenendo conto anche di tutti gli ulteriori oneri posti a carico del debitore.
Ma cosa succede se il TAEG comunicato al mutuatario all’atto della sottoscrizione del contratto di finanziamento non risulti corretto perché non vi ricomprende alcuni oneri comunque addebitatigli?
La normativa di settore prevede rimedi giuridici codificati unicamente con riguardo ai finanziamenti rientranti nel “credito al consumo”. Per tali finanziamenti, difatti, l’art.125 bis del Testo Unico Bancario prevede che in caso di errata rappresentazione del TAEG al cliente consumatore “il TAEG equivale al tasso nominale minimo dei buoni del tesoro annuali o di altri titoli similari eventualmente indicati dal Ministro dell’economia e delle finanze, emessi nei dodici mesi precedenti la conclusione del contratto. Nessuna altra somma è dovuta dal consumatore a titolo di tassi di interesse, commissioni o altre spese”.
Dunque, in ipotesi di non corretta rappresentazione del TAEG al cliente l’istituto di credito perde il diritto a vedersi corrispondere gli interessi e gli ulteriori oneri indicati in contratto, potendo pretendere unicamente interessi liquidati al tasso, ben inferiore, dei buoni ordinari del tesoro.
Pertanto, il consumatore può pretendere dall’istituto di credito la restituzione di quanto pagato in eccesso.
Di contro, nessun rimedio sanzionatorio è normativamente previsto nei casi, pur frequenti, in cui il finanziamento non rientri nel credito al consumo.
La questione concerne soprattutto i contratti di mutuo, per i quali non sempre il TAEG comunicato al mutuatario è corretto, finendo talvolta per esprimere un’onerosità inferiore a quella effettiva.
Tuttavia, non rientrando i contratti di mutuo nel credito al consumo (trattasi di esclusione normativamente prevista dall’art.122 TUB), il mutuatario, pur se eventualmente consumatore, non trova tutela, determinandosi una sperequazione difficile da spiegare sul piano giuridico.
In sintesi, la tutela non è legata allo status di consumatore, quanto, piuttosto, alla sottoscrizione di un contratto di finanziamento rientrante nella categoria del credito al consumo.
La questione è oggi attenzionata anche dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, che mediante un comunicato stampa del 30 ottobre scorso (di libera consultazione sul proprio sito web) ha comunicato di aver avviato un’istruttoria nei confronti di un importante istituto di credito per omessa inclusione della polizza assicurativa (obbligatoria per poter godere delle condizioni agevolative pubblicizzate) nel calcolo del TAEG.
Probabilmente l’istituto di credito sarà sanzionato, ma nessuna tutela avranno i mutuatari che si sono fidati di informazioni rivelatesi non corrette.
Valentino Vecchi
dottore commercialista
esperto in contenzioso bancario
consulente tecnico del Tribunale