Intervista del Direttore Responsabile della rivista AS FINANZA avv. Giuseppe Lepore alla Prof.ssa Stefania Boccia – Ordinario di Igiene e Medicina Preventiva, Università Cattolica Del Sacro Cuore di Roma.
Gent.ma Professoressa, quand’è che siete stati informati, o vi siete resi conto della grave situazione sanitaria relativa al Coronavirus?
Facciamo un breve sunto delle tappe principali che hanno portato allo sviluppo di questa pandemia. Oggi, il primo caso si fa risalire a metà di novembre, precisamente il giorno 17. I casi iniziali di quella che inizialmente veniva definita “misteriosa polmonite” con sintomatologia simile alla SARS vengono riconosciuti e notificati in Cina alle autorità a fine dicembre, e il virus viene identificato piuttosto celermente l’8 gennaio. Il giorno 13 dello stesso mese viene confermato il primo caso fuori dalla Cina, in Tailandia. In questo periodo ancora si conosceva pressoché nulla riguardo a questo virus, anche sulle modalità di trasmissione si sapeva ben poco, si dubitava anche che fosse possibile un contagio uomo-uomo. L’Organizzazione Mondale della Sanità inizia con l’invio di una delegazione a Wuhan e dal 21 gennaio comincia la discussione relativa alla dichiarazione o meno dell’epidemia come un’emergenza globale, cosa che viene fatta il 30 gennaio, quando 82 casi vengono confermati al di fuori della Cina. L’Italia si è mossa subito chiudendo, prima in Europa, i collegamenti aerei diretti con la Cina e dichiarando lo stato di emergenza. In questo contesto la portata dell’epidemia e della gravità della situazione è andata chiarendosi man mano di pari passo con l’aumento delle conoscenze, delle informazioni e delle evidenze scientifiche che circolavano sul virus. Sicuramente l’Italia è stato il primo Paese europeo a prendere la coraggiosa e non semplice decisione di chiudere tutte le attività (seguito poi da Spagna, Francia che in verità avevano già avuto i loro primi casi prima dell’Italia).
Avevate già dei protocolli per affrontare l’emergenza o avete dovuto realizzare ex novo dei pani di intervento?
L’Italia è stato uno dei primi paesi ad attenzionare strettamente il coronavirus, e inizialmente l’ha fatto più di qualsiasi altro stato in Europa come ci dicono indagini recenti dell’Università di Oxford che ha calcolato lo stringency index. È stato l’unico paese che ha cercato di limitare i collegamenti diretti con il Paese da dove la pandemia è originata. L’OMS ha riconosciuto pubblicamente all’Italia questo aspetto. Nel nostro Paese ci si è attivati subito misurando la temperatura corporea negli aeroporti, tentando una precoce identificazione dei possibili casi con loro isolamento, quarantena per contatti stretti, tentando anche di rintracciare ulteriori altri eventuali contatti, nonché è stato subito implementato un sistema di sorveglianza. È stata incaricata una task force di supporto al Ministero della Salute per la risposta a questo nuovo virus in raccordo con le istituzioni internazionali. I protocolli di emergenza ed i sistemi di prevenzione e sicurezza anche nella fase in cui non vi era allarme né era stata pervenuta segnalazione di contagi c’erano. Ovviamente, con l’aumento, le conoscenze ed una maggiore comprensione della storia naturale di questa malattia completamente nuova sono stati di volta in volta migliorati e resi più specifici.
Secondo Lei, il Sistema Sanitario Nazionale è riuscito a dare una risposta adeguata alla grave emergenza sanitaria creata dal virus?
Il nostro Servizio Sanitario Nazionale ha dovuto affrontare questa sfida dopo essere stato, purtroppo, poco finanziato per diversi anni, depauperato quindi sia di risorse economiche sia di risorse umane: infatti, il personale sanitario, medici e non, che dopo anni di lavoro sul campo sono andati in pensione, non sono stati sostituiti in numero sufficiente. Non solo, molti posti letto sono stati eliminati, le attrezzature non sempre rinnovate. Il SSN è stato da anni messo in disparte, tralasciato. I tagli che sono stati fatti non sembra, tuttavia, siano stati lungimiranti, perché in condizioni di emergenza non si è in grado fornire risposte adeguate. Con la modifica del titolo V della Costituzoine del 2001, le Regioni hanno ricevuto grande autonomia in sanità, pertanto queste hanno intrapreso approcci diversi nei confronti dell’emergenza. Ci sono stati, infatti, di massima 3 diversi tipi di approcci: il primo ospedalo-centrico adottato in Lombardia, il secondo basato su un sistema territoriale, principalmente in Veneto, il terzo approccio possiamo definirlo combinato ospedale-territorio come in Emilia Romagna e Piemonte – solo per citare alcune zone più colpite dal Coronavirus. Il primo modello è associato ad una pressione elevatissima sugli ospedali con una durata ed un tasso di ricoveri in queste unità che ha eccesso la totalità dei posti disponibili. La gestione territoriale, invece, ha puntato meno sulle ospedalizzazioni, ma ad un maggiore ricorso ai test. Infine, il modello combinato ha proceduto con un più alto tasso di ospedalizzazioni rispetto al modello territoriale, ma un numero minore di test effettuati sulla popolazione – si pone ad un livello intermedio rispetto i due modelli sopracitati. Non bisogna dimenticare, però, che sebbene l’Italia partisse svantaggiata (ad esempio, il numero di posti in terapia intensiva su circa 60 milioni di abitanti è attorno ai 5000, la Germania ne possiede circa quattro volte tanto) sforzi notevoli sono stati messi in campo cercando di recuperare tanto arretrato in pochi mesi.
Ma un’emergenza legata ad una pandemia virale era davvero inaspettata ed imprevedibile?
Molti segnali relativi alle potenzialità di sviluppo di una pandemia c’erano. Vi erano evidenze che sarebbe potuto accadere. È da anni che si sostiene come una pandemia potesse davvero prendere piede. Fino a quel momento molte pandemie fortunatamente sono state evitate, dalla SARS, all’influenza pandemica, all’Ebola. La minaccia di una pandemia, quindi una epidemia a livello globale era conosciuta agli scienziati, ma non solo.
Secondo Lei il S.S.N., in futuro, trarrà dei vantaggi organizzativi dalla drammatica esperienza vissuta in questi giorni?
Questa drammatica esperienza deve essere vista anche sotto un’altra ottica: quella della necessità di riorganizzazione dell’SSN cambiando rotta su diversi aspetti. Questo vuole dire che bisogna prendere ciò che è attualmente vantaggioso e che porta benefici alla popolazione in termini di esiti di salute, come la gestione dell’assistenza sociosanitaria maggiormente vicina agli assistiti e mantenerlo, consolidarlo. Non sono dell’avviso di tornare invece indietro nel tempo e ad un approccio esclusivamente centrale, ma vi è bisogno di rafforzare la cooperazione tra le regioni, e tra queste ed il livello centrale. Tutto ciò richiede un investimento in termini di capitale umano e di risorse economiche perché riforme strutturali importanti nell’ambito socio-sanitario vengano introdotte ed implementate. Il SSN dovrà abbandonare la logica ospedalo-centrica perché, come dicevo poco fa, per alcune realtà ha contribuito a peggiorare gli esiti della pandemia da Coronavirus, ma ripensarlo basandolo su sanità pubblica, medicina territoriale ed ospedale in maniera organizzata e funzionale. Credo che sia assolutamente necessario investire di più in sanità pubblica e prevenzione, perché c’è un ritorno importante dall’implementazione di queste strategie. Investire in prevenzione significherebbe riuscire a ridurre il numero di persone da assistere, una vita mediamente più lunga e maggiormente trascorsa in buona salute. L’atteggiamento “passivo” di curare invece chi si è già ammalato e si reca magari al pronto soccorso perché ha condotto una vita sedentaria, ha fumato e ha mangiato in maniera poco salutare è poco vincente sia per l’assistito che per lo Stato, per il quale è oltretutto molto dispendiosa in termini di costi diretti ma anche indiretti. Questa pandemia di certo può essere un’occasione per rimodulare in meglio il funzionamento della sanità italiana.
Di Avv. Giuseppe Lepore, Direttore Responsabile AS Finanza.
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