Interviste del Direttore Responsabile della rivista AS FINANZA avv. Giuseppe Lepore a coloro che hanno consentito al nostro Paese di sostenersi nel periodo di lockdown.
Antonio De Palma, Presidente di Nursing Up – Sindacato Infermieri Italiani
Egregio Presidente, quand’è che siete stati informati della grave situazione sanitaria relativa al coronavirus?
Alla fine dello scorso mese di gennaio, quando i casi di contagio in Italia erano pochissimi, e si potevano davvero contare sulle dita di una mano, prima che esplodesse la reale emergenza, nei numeri, legata ai pazienti affetti da Covid-19, con la crisi in Lombardia e le prime “zone rosse”, il nostro Sindacato si era già attivato con le autorità competenti per capire fin dove si sarebbe protratto il pericolo, in primis con il Ministero della Salute, per avere le prime risposte certe. Pur avendo poche informazioni a disposizione, come rappresentanti di una categoria di lavoratori che da lì a poco avrebbe vissuto sulla propria pelle, in prima linea, il dramma di una vera e propria guerra, i nostri rappresenti erano costantemente presenti in tutti i territori regionali per vivere direttamente l’evolversi della situazione. Di lì a poco sarebbe scoppiato il caos totale, professionalmente eravamo pronti a dare tutto, da subito. Ma il nemico era forte, sconosciuto, subdolo, e immediatamente i piani sanitari locali hanno cominciato a scricchiolare, mostrando le loro lacune. Prima di arrivare ai casi di decessi di colleghi, prima di giungere alle scabrose vicende della mancanza di presidi di protezione, noi eravamo sul campo, ad assistere al caos dei giorni iniziali. Quando il Governo vacillava nel prendere decisioni ferme, i contagi cominciavano ad aumentare di numero, arrivavano i primi decessi, e negli ospedali noi dovevamo gestire situazioni difficilissime, con i pronto soccorso affollati, con il panico delle persone, in totale balìa di una crisi non dovuta alle nostra mancanza di capacità, ma all’impossibilità di essere messi nella condizione di gestire quella condizione con un piano organizzativo, alle nostre spalle, degno di tal nome. Ciò nonostante, dal primo giorno, dal primo caso, mentre il Sindacato combatteva per avere il diritto all’informazione da parte di un Governo già ampiamente confuso sul da farsi, da infermieri abbiamo affrontato la lotta sul campo con pochi mezzi ma senza alcuna paura. Prima ancora che il Governo dichiarasse lo stato d’emergenza, siamo stati noi, con un nostro comunicato del 31 gennaio, già consci della situazione, a chiederlo a gran voce. Abbiamo preteso da subito la presenza di professionisti infermieri nelle prime unità di crisi regionali, poiché, consapevoli della serietà della situazione, ci siamo subito sentiti coinvolti. Eravamo, fisicamente e mentalmente, responsabili della salute dei cittadini, dovevamo fronteggiare il pericolo e dovevamo essere capaci di fornire loro quelle informazioni che in fondo a noi nessuno si è mai preoccupato di dare.
Negli ospedali vi erano già dei protocolli per affrontare l’emergenza o avete dovuto realizzare ex novo dei piani di intervento?
Sorrido amaramente al pensiero del “minimondo” in cui ci siamo ritrovati catapultati. Dal Governo arrivavano ampie rassicurazioni ai cittadini sull’efficiente stato di preparazione delle strutture sanitarie, pronte, nelle parole della classe politica, ad affrontare il nemico nel migliore dei modi. I consigli sulle mascherine, le prime conferenze stampa della Protezione Civile, le testate giornalistiche che non parlavano di altro, gli stessi cronisti consoni di aver sottovalutato nei primi giorni la situazione. Noi, però, abbiamo vissuto da subito l’inferno: quando è arrivato lo stato di emergenza noi eravamo già da giorni a combattere nei pronto soccorso, a cercare di capire per ogni singolo caso se si trattasse di influenza, psicosi o reale contagio. E dovevamo fare i conti, momento dopo momento, con una patologia dai sintomi nuovi, aggressiva e sconosciuta. Chi doveva supportarci, dal primo momento, lo ha fatto solo in modo parziale e approssimativo. Ed è stato solo grazie al cuore, alla professionalità, all’impegno di infermieri e medici che in molti ospedali si è riusciti a gestire le situazioni di emergenza. Naturale che al Nord ci siamo trovati di fronte, dopo poco tempo, una valanga che ci ha travolto, che però non ci hai mai visto alzare bandiera bianca. Nonostante la mancanza di presidi di protezione, nonostante i turni massacranti, nonostante nuove assunzioni frutto di confusione ed improvvisazione, nonostante le gestioni di ogni singola regione fossero come il vestito di Arlecchino: nessuna uguale all’altra. Al Sud, poi, dove ci davano per spacciati prima ancora che il virus arrivasse, abbiamo dimostrato di cavarcela egregiamente, nonostante le difficoltà strutturali presenti da una vita. E per fortuna a tale altezza dello stivale non c’è mai stata quella esplosione di casi che qualcuno aveva previsto. Chi doveva garantirci uomini efficienti per dare manforte alla battaglia ha pescato a caso dal mazzo: non puoi mettere un infermiere giovane e inesperto a combattere in trincea in un momento così. Ma è stato proprio allora che le buone emozioni hanno vinto, supportate dalla conoscenza. In quel caos totale ci siamo riconosciuti da buoni professionisti e ci siamo aiutati tra colleghi, abbiamo sopportato la fatica e l’isolamento dalle famiglie, abbiamo fatto da maestri ai colleghi più giovani. Abbiamo confortato i pazienti come fossero parte di noi. Li abbiamo visti morire davanti ai nostri occhi e non lo dimenticheremo mai. In questo “minimondo” c’erano due realtà diametralmente opposte: quella degli “oratori”, capaci di passare il loro tempo tra chiacchiere, conferenze stampa e decreti. E quella dei “soldati”, che hanno combattuto e ancora combattono contro il nemico a costo della vita.
Secondo Lei, il Sistema Sanitario Nazionale è riuscito a dare una risposta adeguata alla grave emergenza sanitaria creata dal virus?
Non c’è stata in alcun modo la risposta che ci aspettavamo. Ce ne siamo resi conto quando i decessi arrivavano a mille al giorno. Quando i nostri colleghi sono morti sul campo. Quando chi doveva disegnare “nell’accampamento” la strategia da adottare, da lì a poco contro il nemico, prima di mandare i soldati in battaglia, non è stato capace di adottare un piano concreto per fronteggiare il duello, reso già difficile da un nemico invisibile. Noi ci siamo ritrovati a compensare con elevato senso etico e grazie alle nostre conoscenze e competenze la mancanza di coordinamento dall’alto, la confusione di direttive lacunose, la carenza di personale, la scarsità di armi con cui combattere. Solo lasciando sul campo fino all’ultima goccia di sudore, siamo stati anche in grado di riportare brillanti vittorie, certo non potendo talvolta evitare rovinose sconfitte. Come nelle guerre dell’antichità, non tutto si è risolto in un unico confronto. Occorrevano l’aggiornamento, il piano strategico, le donne e gli uomini giusti al posto giusto. Avremmo avuto bisogno di una serie di generali all’altezza della situazione. Così non è stato.
Ma un’emergenza legata ad una pandemia virale era davvero inaspettata ed imprevedibile?
Inutile nascondere che l’effetto imprevedibilità c’è stato: l’aver sottovalutato la forza del nemico è di certo una grave responsabilità unita alla mancanza tempestiva di informazione ed organizzazione. Il grande senso etico, di responsabilità e lo spirito di civico servizio degli operatori sanitari italiani ha permesso di recuperare una partita che sembrava già compromessa.
Certo, non ci aspettavamo un nemico del genere: gli effetti del Covid-19 sulle persone erano nuovi per tanti di noi. Non ci siamo persi d’animo, questo è certo: tanti sono stati i professionisti che hanno continuato a studiare le caratteristiche del nemico mentre i soldati cercavano di stanarne le forze. In fondo in un Paese moderno la forza di un sistema sanitario efficiente è questa: ricercatori da una parte, operatori sanitari dall’altra, uniti per un unico obiettivo, la salute pubblica. Ma oggi noi potremmo dire che l’Italia è all’avanguardia nella ricerca scientifica? Lo è per uomini e menti, non per il sistema organizzativo che è alla base. Non è retorica pensare a come i nostri migliori studiosi trovino terreno fertile all’estero. Da una parte è motivo d’orgoglio, dall’altra è fonte di estremo rammarico.
Secondo Lei il S.S.N. e la categoria professionale che Lei rappresenta, in futuro, trarrà dei vantaggi organizzativi dalla drammatica esperienza vissuta in questi giorni?
Senza dubbio abbiamo lavorato con spirito di sacrificio e di civico servizio, a testa bassa, senza paura. Lo abbiamo fatto sospinti esclusivamente dall’amore per il nostro lavoro, come donne, uomini e come infermieri, per aiutare i cittadini ad uscire fuori da questo buio tunnel. E’ evidente che ci aspettiamo un riconoscimento per tutto quello che abbiamo fatto, una crescita contrattuale ed economica che come categoria sentiamo di meritare, alla luce dell’elevata professionalità dimostrata in un momento così difficile, dove abbiamo sorretto con le nostre mani il peso dell’emergenza sanitaria, governando egregiamente la situazione, nonostante una elevata confusione organizzativa che non ha precedenti e le carenze strutturali con cui abbiamo dovuto fare i conti. Handicap grandi come “macigni” che non ci hanno certo agevolato nel nostro lavoro quotidiano. Per questo gli infermieri italiani, più che mai, dopo la fase acuta del Covid-19, sentono di essere in diritto di chiedere al nostro Governo quei riconoscimenti che attendono da oltre 20 anni. Nessuno dimentichi che da tempo la figura dell’infermiere è cambiata: siamo professionisti laureati, la nostra professionalità è il frutto di un percorso di studio lungo e impegnativo, che per molti di noi non ha nulla da invidiare a quello dei medici. In virtù di tutto ciò, ancora non ci spieghiamo perché la nostra crescita professionale non sia andata di pari passo con la valorizzazione lavorativa ed economica che ci compete. Tutto è rimasto tristemente fermo al palo. Non dimentichiamo che gli altri Paesi europei come la Germania e l’Inghilterra hanno compreso il valore degli infermieri italiani ed il nostro elevato livello di preparazione: ogni anno “pescano” a piene mani i nostri migliori elementi infermieristici per portarli nelle loro strutture sanitarie, gratificando i loro sforzi e valorizzandoli come professionisti qualificati, facendoli sentire appagati economicamente e rispettati lontano dall’Italia. E’ proprio in questo modo che si favorisce la grave emorragia di personale qualificato dai nostri ospedali .
Di Avv. Giuseppe Lepore, Direttore Responsabile AS Finanza.
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